Il giornalismo, un mestiere da rubare

Oggi il giornalismo è un lavoro complicato, poiché sono diminuite le possibilità di accedere alla professione ed è diminuita anche la libertà del giornalista. Attilio Bolzoni, giornalista che da oltre cinquant’anni lavora nel settore, ha un’ampia conoscenza del mestiere, in particolare del lavoro del cronista. In questi giorni ho avuto il piacere di intervistarlo, al fine di raccontare la sua esperienza nella Palermo degli anni ’70-’80, capire come sia cambiata la professione oggi e cogliere qualche consiglio su questo mestiere.

Come è cambiata la professione del giornalista dagli anni ’70-’80 ad oggi?

La professione del giornalista è cambiata completamente perché i nuovi media l’hanno stravolta, rendendola più galleggiante, superficiale e anche meno credibile. Questo dal punto di vista della forma, perché nella sostanza il giornalismo non cambia mai, in quanto esso si fa sempre nello stesso modo, che si stia nel cortile di casa o a chilometri di distanza. Non è vero che i giornalisti giovani non sanno fare il loro mestiere, perché ce ne sono tanti bravi. E i giornalisti vengono spesso trasformati in polli d’allevamento, come operai nella catena di montaggio che non sanno cosa accade attorno a loro. I giornalisti riescono a fare il loro mestiere stando lontani dal giornale e senza la protezione assicurativa o professionale. Fanno il loro lavoro. Il giornalismo si è rivoluzionato.

Dottor Bolzoni, Lei ha iniziato subito con la cronaca nera. Era esattamente quello che voleva fare?

Assolutamente no. Io mi sono ritrovato a fare il giornalista a Palermo, nel 1979, durante una guerra di mafia. Non avevo mai letto un libro di mafia prima d’allora né mi ero mai interessato di mafia. Un giornalista però si occupa di quello che ha intorno, non di pane e panelle. Di Sciascia hanno detto che era un cronista antimafia, ma in realtà fu uno scrittore che si occupò di ciò che aveva intorno, quindi anche della mafia. Fu lui a far conoscere agli italiani la mafia per la prima volta con quel famoso libro “Il giorno della civetta” del 1961.

Giorno 3 Aprile 2024 è andata in onda la puntata “Mafie”, di un podcast, “La Serranda”, diretto da alcuni giornalisti. Lei, assieme alla sua collega Mastrogiovanni, è stato ospite della puntata. Si è discusso del rischio che un giornalista corre, specie quando costretto a proteggersi, nel proprio lavoro. Come si convive con questo?

La protezione non è solo fisica, perché la maggior parte delle volte l’aggressione è mentale. Io non ho avuto paura delle pallottole che mi inviavano, avevo paura quando sentivo vicino a me gli AK-47. Io ho avuto più paura degli amici della mafia e ne ho ancora oggi.

Chi sono gli amici della mafia?

Quelli che dovrebbero combattere la mafia ma che invece stanno al suo fianco. Sono la rete di protezione e di complicità dei mafiosi.

Sigfrido Ranucci ha raccontato di aver avuto come maestro del giornalismo Roberto Morrione, il fondatore di RaiNews24. Lei ha mai avuto qualche figura di maestro?

Io credo che questo lavoro per impararlo bisogna rubarlo, ai più vecchi e bravi. Io ogni giorno lo rubavo a tanti colleghi bravissimi, spianandoli per la loro autorevolezza e bravura e per come si muovevano in quella Palermo. Ho provato a rubare il mestiere anche a colui che per me è stato il migliore giornalista del dopoguerra, Giorgio Bocca.

Nel suo ultimo libro, Controvento, racconta oltre quarant’anni di mestiere, nei quali Lei è stato anche inviato sul fronte di guerra. Come è l’esperienza dell’inviato?

Il giornalismo è sempre lo stesso, che si faccia a casa propria o a chilometri di distanza. Non mi piacciono le oggettivazioni come “Giornalista d’inchiesta” o “Inviato di guerra”. Io sono stato corrispondente di guerra a casa mia, Palermo, durante la guerra di mafia. Se si vuole fare il giornalista bisogna diffidare di questi aggettivi. Riguardo la favola del giornalismo d’inchiesta, esso piace quando è lontano da casa propria e non quando è vicino.

Lei ha avuto anche la possibilità di lavorare con Letizia Battaglia, reporter e fotografa pluripremiata, donna simbolo della Fotografia. Mi racconta un aneddoto?

Maggio 1981. 43 anni fa. Avevano appena ucciso il secondo capo mafia di Palermo, Salvatore Inzerillo. Io e Letizia siamo andati a Passo di Rigano, la borgata dove c’era il funerale. Da un’auto bianca scese la vedova Spatola. La Chiesa era piena di fiori, i politici allora non si nascondevano e inviano i fiori ai funerali dei boss. Migliaia di picciotti, tanti avevano la pistola. Faceva caldo e lo si vedeva sotto la camicia. Un uomo si avvicina e allontana Letizia perché aveva la macchina fotografica. Ad un certo punto ho sentito un’espressione, “andare in materassi”, che avevo già sentito nel film “Il Padrino”. Significava essere in guerra, buttare i materassi a terra, non dormire a casa. Letizia fu allontanata, ma dopo pochi giorni in prima pagina uscì una bellissima foto, che Letizia fece di nascosto.

Ultimamente il caso dei cronisti del Domani vede indagati alcuni suoi colleghi, i quali si sono difesi appellandosi anche alla libertà d’informazione. La stampa italiana al momento è sola?

Ci sono stati anche giornali che hanno attaccato i miei colleghi. I giornalisti che fanno il loro mestiere sono spesso soli, anche se fanno il loro lavoro. Questi magistrati non sembrano sempre fare la cosa giusta. La parola “concorso” deraglia. Si, la stampa al momento è sola. C’è una stampa molto partigiana nel nostro paese.

Secondo molti oggi è difficile parlare della mafia, smascherarla. Si dice che essa non spari più, anche se diversi avvenimenti sembrano dimostrare il contrario.

La mafia non spara più, no. Il 1991 fu l’anno record di omicidi di mafia, precisamente 760 in un anno. I morti di Terrorismo nero e rosso dal ’69 all’85 sono poco più della metà, circa 400. La mafia non si manifesta all’esterno, ha ripreso la sua natura, il suo DNA. Essa, oggi , evolve sempre. Certo, è difficile raccontarla perché non si vede. Alcuni magistrati la definiscono come mafia 1.0, o 2.0. La mafia è sempre la stessa, l’anomalia erano i corleonesi, quelli che sparavano durante i 25 anni che hanno attaccato lo Stato.

In Italia ci sono diverse organizzazioni che operano, a detta loro, nella legalità. Eppure il mondo criminale suscita ancora molto fascino. Cosa si può fare per aiutarle?

Intanto molte di esse hanno perso la loro carica progressiva, pensano più a mantenersi che a proiettarsi all’esterno. Hanno poco sapere, sono politicamente orientate, mal guidate. Ad esempio, Libera non ha capito ciò che in questi anni è accaduto al tribunale di Palermo, nel caso Montante, con “Mafia Capitale”, salvo poi costituirsi parte civile nel processo. Libera non ha compreso cosa sta accadendo a Bari. Non mi piace quando queste associazioni sono orientate. Dopo 30 anni dalle stragi del ‘92 però queste associazioni non hanno raggiunto i risultati sperati. E a capo dei progetti di legalità di tutta Italia c’era una persona che è stata condannata qualche mese fa per corruzione. L’Antimafia viene costantemente abusata, come sono abusate le foto di Falcone e Borsellino. La mafia deve uscire dal catechismo del bene e del male, in quanto i risultati ottenuti non hanno prodotto un cambiamento culturale nel paese, che era ciò che speravamo.

Spesso la narrazione che le inchieste danno dei fatti di cronaca vengono etichettati come qualcosa che non educa, ad esempio con Saviano. Cosa ne pensa?

Queste polemiche secondo me sono strumentali. Saviano ha raccontato la camorra, è un raccontatore, fa il suo mestiere, che gli altri facciano il loro. Anche la fiction “Il capo dei capi” è stata molto criticata, e questo lo accetto anche. Gli educatori però devono spiegare meglio cosa è la mafia, senza dividere buoni e cattivi. Riina è cattivissimo, ma non poteva esserlo quando a tre anni la sua famiglia è saltata in aria. Ci sono tanti pregiudizi secondo me.

Per un giornalista spesso è difficile fa coincidere lavoro e vita privata. Ci sono strategie?

Un giornalista vita privata ne ha poca. Questo è un lavoro totalizzante, se si è inviati bisogna stare settimane lontani dalla famiglia. Oggi è molto diverso.

Per concludere, cosa direbbe a un giovane che vuole intraprendere questa carriera, essendo oggi il settore della carta stampata in crisi?

Gli direi di farlo, e con passione, non c’è solo la carta stampata. C’è la tv, il web, tante altre forme di scrittura. Fallo con passione perché ce n’è bisogno.

Roberto Fortugno

di Redazione Attualità

Rubrica di long form journalism; approfondimento a portata di studente sulle questioni sociali, politiche ed economiche dall’Italia e dal mondo.

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